Come facilitare la relazione di accoglienza? Come contribuire alla creazione di una rete di servizi e interventi che siano veramente in grado di ascoltare la molteplicità culturale?

Questi sono alcuni interrogativi che il lavoro con gli stranieri e con gli operatori dei servizi d’accoglienza mette costantemente in evidenza. Alcuni elementi fondamentali per riflettere su queste domande sottolineano che è necessario essere disposti a:

– capire quanta integrazione istituzionale e comunitaria stiamo costruendo attraverso il nostro lavoro;

– analizzare i contenuti dei nostri nuclei identitari e la natura dei nostri confini simbolici e i nostri immaginari geografici;

– rivedere i nostri narcisismi organizzativi e ampliare i nostri schemi di riferimento per poter integrare una molteplicità di scienze e teorie che forse per qualche tempo abbiamo lasciato al margine.

Tale ampliamento può essere fatto a partire dalle idee dell’etnopsichiatra Tobie Nathan (1993), il quale parla di un involucro culturale con un’origine sociale che rende possibile il funzionamento degli apparati psichici e contribuisce a ordinare, governare e fornire i principali strumenti di interazione tra la persona e il mondo.

Questo contenitore sociale e culturale permette l’emergere dell’apparato psichico. Tutti igesti e i comportamenti della vita quotidiana all’interno delle comunità diaccoglienza risentono inevitabilmente dell’incontro/scontro tra involucri culturali diversi, bozzoli identitaristrutturati differentemente tra loro, che danno vita a dinamiche interpersonali e gruppali eterogenee e spesso molto impegnative da gestire per gli operatori.

Ad esempio, il cibo è uno degli elementi strutturanti dell’involucro culturale in quanto consente l’esistenza e permette di tenersi in vita, oltre che essere direttamente collegato alla nascita, al rapporto madre-bambino e, quindi, alla questione delle proprie origini. In altri termini, le abitudini alimentari vanno dritte al cuore dell’identità. Infatti, la gestione di questi aspetti dell’accoglienza risulta spesso difficile e complicata e richiede agli operatori non solo la capacità di offrire una soluzione, ma soprattutto l’inclinazione a costruire una relazione sufficientemente nutritiva ed emancipativa in maniera da dare una buona base di fiducia ai processi di integrazione.

Si nota che i conflitti più duri sono spesso legati a episodi connessi all’abitare (condividere uno spazio/tempo, pratiche della preghiera, routine alimentari e igieniche, organizzazione della spesa e occupazione di una certa stanza) che non rimandano solo a carenze organizzative, ma rivelano il fatto che un migrante vive un shock migratorio, ovvero è catapultato, con violenza, in una cornice esistenziale totalmente diversa.

Questo cambiamento radicale non può permettere un mero e passivo adattamento al contesto e richiede un’elaborazione soggettiva con l’adeguato sostegno psicologico ed emotivo. In mancanza di ciò,il soggetto può vivere una sorta sindrome della doppia assenza, un sentimento di essere ovunque e comunque fuori luogo. Tale sentimento può manifestarsi nei primi tempidell’accoglienza insieme a carenza ideativa e trasformativa, depressione,svuotamento dei contenuti mentali, perdita dei riferimenti, erosione del proprio ruolo, impossibilità di progettare il proprio futuro.

Nei percorsi di formazione e supervisione dei gruppi degli operatori questo materiale risulta prezioso perché permette di far comprendere meglio i vissuti dei migranti che, in base alla propria storia e alle modalità soggettive di rispondere al trauma, andranno a dare un particolare forma alla relazione con gli operatori e con il nuovo ambiente. Per questo motivo, il lavoro di formazioneconsiste nel consentire ai gruppi degli operatori di strutturare un pensiero di carattere transculturale: l’adattamentoa una nuova cultura non è né assimilarsi ad essa, né dimenticare la propria. Laricerca che tutti dobbiamo fare è creare spazi e significati ulteriori: una sintesi,una contaminazione, una ricombinazione di elementi e saperi.

L’implicazione continua di componenti identitarie fa sì che la formazione e la supervisione degli operatori sia portatrice di profondi dilemmi esistenziali che scardinano il sistema simbolico di chi li accoglie: quale potere abbiamo per aiutarli? È possibile una reale integrazione? Qual è la loro/nostra libertà e responsabilità? Inoltre, la profondità di queste domande, in certe situazioni, fa percepire opposizioni e conflitti che i migranti vivono nelle situazioni di accoglienza e cura come attacchi personali verso gli operatori.

In questo caso, bisogna aiutare il gruppo a pensare che in realtà si potrebbe trattare di processi difensivi e proiettivi, a partire dalla difficoltà dei migranti a mentalizzare le angosce legate alla loro situazione, alla loro impotenza e alla loro sensazione di sentirsi perduti.

Inoltre, un ulteriore chiave di lettura ci permetterebbe di vedere che l’assunzione di particolari ruoli del singolo può essere espressione di fenomeni gruppali. Per esempio, alcuni comportamenti possono essere visti come determinati dal gruppo anche quando sono manifestati da singoli individui, che diventano così portavoce dell’interogruppo: si tratta di configurazioni emozionali e psichiche che coinvolgono la gruppalità esistente in un certo momento.

Oltre le influenze gruppali, è essenziale tenere presente la relazione tra la dimensione latente e manifesta del compito proprio della cura e dell’accoglienza. Il compito manifesto riguarda le azioni che consentono di ospitare le persone a patto che si impegnino ad accettare alcune regole di vita comunitaria, inattesa dei tempi di sviluppo dei loro percorsi legali. La dimensione latente del compito si riferisce a ciò che ognuno, dentro di sé, immagina, soffre, sente, desidera, in riferimento a quanto dovrebbe accadere nel tempo di permanenza in struttura e oltre. La consapevolezza dell’esistenza di queste due dimensioni e della loro reciproca influenza è ciò che permette all’operatore di vedere la complessità del proprio compito, senza ridurlo ad una sterile esecuzione lavorativa e senza lasciarsi influenzare da pregiudizi culturali e omologanti che possono far immaginare che le differenti culture degli ospiti (ghanesi, maliani, nigeriani…) diano gli stessi significati, le stesse connotazioni alle esperienze, agli oggetti.

Questo si può fare concretamente andando oltre i comportamenti manifesti, dando la parola alle persone e sviluppando la funzione del pensiero, per evitare di cadere nell’agito e di non riuscire a sostenere a sufficienza l’elaborazione di un incontro culturale perturbante.

Inoltre, rimanendo a lungo dentro a un compito e soffermandosi solo sul suo obiettivo razionale, si può manifestare nelle équipe una sorta di claustrofobia che impedisce di prendere atto dei cambiamenti, dei risultati e delle buone pratiche. Questo comporta la focalizzazione su quello che non va, che si ripete, che manca. Per evitare questo, il setting della formazione e della supervisione dovrebbe essere costruito in maniera tale da consentire agli operatori di raccontare, ri-guardare la situazione lavorativa per accedere a insight, intuizioni e riconoscere i risultati del lavoro fatto.

Questa risignificazione mette in gioco l’operatore non solo professionalmente, ma anche dal punto di vista esistenziale in quanto gli permette di far entrare altre idee,nuovi pensieri, nuove curiosità.

In sintesi, l’incontro interculturale attiva, nel gruppo, perturbazioni che, da un lato, mettono in discussione aspetti delle funzioni e dei ruoli nelle rappresentazioni familiari e intersoggettive e, dall’altro, interrogano il sistema simbolico che configura le rappresentazioni di sé, dell’altro e del mondo. I cambiamenti legati all’incontro transculturale possono incontrare blocchi dovuti a situazioni traumatiche, alle conseguenti difese attivate e alla presenza di resistenze nelle dinamiche intersoggettive e gruppali. Un’identificazione rigida con la cultura originaria può essere una fonte di resistenza all’incontro con elementi di una cultura altra, perché il soggetto vive intensi sentimenti di tradimento se sente che questa appartenenza viene messa in discussione. In conclusione, l’apprendimento gruppale nel lavoro d’accoglienza è un processo che può condurre a una ricombinazione di visioni, di significati, di linguaggi, in precedenza percepiti come separati o antagonisti. Il valore del gruppo si manifesta anche nella possibilità di incidere, sulle trasmissioni inter- e transgenerazionali. Infatti, un processo di apprendimento che conduce a un adattamento attivo è capace anche di arricchire il dialogo intergenerazionale e faciliterà l’espressione di eventuali traumatismi che, se non elaborati, potrebbero pesantemente manifestarsi nelle generazioni successive. Per tale ragione, lo schema di operativo degli operatori deve essere in grado di comprendere e ascoltare anche gli elementi più dolorosi, in modo da riuscire a dare alla relazione d’accoglienza una qualità autentica e trasformativa.

 

Rifermenti bibliografici

Cavicchioli, G. (2020). Ospiti o nemici? : esperienze nei gruppi di formazione e di supervisione degli operatori che si occupano di accoglienza dei migranti, in “Gruppi : nella clinica, nelle istituzioni, nella società : 1, 2020, Milano : Franco Angeli.

 

Nathan, T. (1993). Principi di etnopsicoanalisi. Torino: Bollati Boringhieri, 1996.

supervisione-gruppi

La supervisione psicologica nei servizi residenziali per anziani: uno strumento per permettere all’operatore si sintonizzarsi con se stesso e di entrare in relazione con gli altri in modo autentico.

Abbiamo chiesto al dott. Paolo Landi, psicologo-psicoterapeuta e supervisore presso LifeforLife Palazzo Belvedere di raccontarci l’importanza della supervisione psicologica nelle strutture residenziali.

“Per un operatore dei servizi residenziali per anziani, “essere bravo” significa essenzialmente essere capace di sintonizzarsi con l’altro.

Il personale delle residenze per anziani racchiude professionisti specializzati nella presa in carico di specifici bisogni intensi e capillari delle persone ospiti. Risulta così fondamentale il concetto di supervisione rivolto agli operatori oltretutto impegnati in una formazione continua atta ad ampliare specifiche capacità nello svolgere compiti che includono, oltre a cure sul piano tecnico, competenze sul piano emotivo-relazionale.

Una supervisione che diventa, attraverso i colloqui individuali o di gruppo, una vera opportunità di crescita e di miglioramento per l’intera equipe e per gli ospiti, destinatari finali del benessere degli operatori. Fondamentale, in quest’ottica, la possibilità di potenziare l’intelligenza emotiva e la capacità empatica degli operatori per sviluppare competenze interpersonali che aiutino ad interagire in modo più funzionale con se stessi e con gli altri.

L’assunto è che ci possiamo “mettere nei panni dell’altro” solo e soltanto se siamo capaci di sintonizzarci prima con noi stessi.

Gli operatori di una struttura residenziale geriatrica sono spesso mossi da una profonda motivazione ad aiutare l’altro e di riflesso a dare un senso attraverso l’aiuto alla propria vita.

Essere quindi sensibili al benessere dell’operatore rappresenta un punto di forza di una struttura residenziale”.

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